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Da Isola delle Rose a isola del riuso: la sostenibilità che arriva dal mare

Dal lavoro di collaborazione con UGIS Unione Giornalisti Italiani Scientifici per l'edizione 2022, questo articolo è stato originariamente pubblicato sulla pagina web UGIS dedicata. L'autrice è Elisa Dallavalle, dottoressa di ricerca in Ingegneria Civile

Dal lavoro di collaborazione con UGIS Unione Giornalisti Italiani Scientifici per l’edizione 2022, questo articolo è stato originariamente pubblicato sulla pagina web UGIS dedicata. L’autrice è Elisa Dallavalle, dottoressa di ricerca in Ingegneria Civile

Nell’ambito dell’iniziativa @UniboPER/PhD Storytelling, Elisa Dallavalle, dottoressa di ricerca in Ingegneria Civile al Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali, racconta il possibile futuro delle piattaforme offshore, dal turismo alle energie rinnovabili.

Il colosso dell’intrattenimento Netflix, con il film “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”, ha riportato agli onori della cronaca le bizzarre vicissitudini dell’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, che tra il 1960 ed il 1969 costruì una piattaforma al largo di Rimini (l’Isola delle Rose, appunto) con l’intento imprenditoriale di farne un’attrazione turistica. La piattaforma, 400 metri quadrati di cemento e acciaio, era del tutto simile alle piattaforme per l’estrazione di gas e petrolio che popolano il mare Adriatico, ma doveva essere destinata ad accogliere bar, discoteche, attività commerciali e camere di hotel a scopo ricreativo. La vicenda si concluse con la distruzione della piattaforma, che, trovandosi al di fuori delle acque territoriali, era stata provocatoriamente dichiarata Stato Indipendente e si era dotata di organi politici, bandiera e francobolli, e lo stravagante episodio venne archiviato come una buffonata. Ma se così non fosse?

In realtà, l’idea dell’Ingegner Rosa è quanto mai attuale. Ad oggi, a scala mondiale, sono disseminate nei mari e negli oceani più di 6.500 piattaforme oil&gas, molte delle quali, dopo alcune decine di anni di operatività, sono ormai giunte alla fine della loro vita produttiva. Nel solo Mare Adriatico sono presenti oltre 90 piattaforme (la maggiore concentrazione del Mediterraneo) e circa 40 di esse dovranno essere dismesse nell’imminente futuro.

Finora, si è dato per scontato che la rimozione completa delle strutture fosse l’unica opzione ammissibile. Ma se demolire le piattaforme non fosse la soluzione più sostenibile come immaginiamo? Da alcuni anni, aziende dell’energia e politici si stanno interrogando sull’opportunità di destinarle ad altri usi, anziché smantellarle. Le strutture esistenti potrebbero infatti agevolmente fungere da centro logistico per diverse attività offshore, creando aree marine multiuso che consentirebbero di sfruttare lo spazio al largo, alleggerendo la pressione antropica sulle coste.

La questione, che può apparire banale, è in realtà estremamente complessa e tocca importanti tematiche economiche, sociali ed ambientali. Se ne sono occupate alcune Università italiane, tra le quali l’Università di Bologna, nell’ambito del progetto PON PlaCE (2018-2022), che ha visto anche la collaborazione di un grande partner industriale del settore oil&gas, Eni, ed il cui obiettivo era “lo sviluppo di strategie e tecnologie innovative per il decommissionamento e per il possibile riutilizzo di piattaforme offshore, combinando necessità industriali con la tutela dell’ambiente marino”. Nell’ambito di tale progetto, è stata studiata la tecnologia dell’accrescimento minerale, impiegata per estendere la vita utile delle strutture proteggendole dalla corrosione, ed è stato sviluppato uno strumento di supporto decisionale che, sulla base di indicatori economici, ambientali e sociali, consente di confrontare le alternative di dismissione o riuso delle piattaforme, coadiuvando i decisori nella scelta.

In effetti può risultare difficile, per i non addetti ai lavori, immaginare come queste mastodontiche strutture possano tramutarsi in una sorta di oasi di sostenibilità. Eppure, sono numerose le attività che è possibile svolgere sulle piattaforme nell’ottica dell’economia circolare e della “Blue Growth” (la “Crescita Blu”, ossia la strategia di crescita dell’economia marina sostenibile). Tra esse vi sono ad esempio l’itticoltura e la maricoltura (cioè l’allevamento di pesci, molluschi ed oloturie); le attività di ricerca scientifica ed il monitoraggio ambientale, attraverso tecnologie innovative come il drone anfibio o il robot sottomarino Clean Sea; l’installazione di sistemi innovativi per la produzione di energie rinnovabili, che servono per alimentare le attività sulla piattaforma ma possono anche essere stoccate o inviate a terra; la desalinizzazione; la produzione di idrogeno verde e perfino le visite didattiche ed il turismo subacqueo.
Infatti, le strutture delle piattaforme si trasformano spesso nell’habitat ideale per le comunità marine, tanto che la loro demolizione per ripristinare il fondale antecedente alla costruzione comporterebbe al contrario una notevole perdita di biodiversità.

Un esempio tangibile si ha proprio nel Mar Adriatico, al largo di Ravenna: la piattaforma Paguro, collassata nel 1965, si è trasformata in un’oasi per una varietà di organismi viventi e costituisce un importante sito per la ricerca scientifica e per il turismo (circa 3.000 visite all’anno) grazie alla fauna marina che ha colonizzato le strutture. Addirittura, è il primo ed unico sito marino ad essere stato nominato Sito d’Interesse Comunitario nella Regione Emilia Romagna e il campione di apnea Umberto Pelizzari lo considera uno dei cinque luoghi più interessanti per le immersioni in Italia.

L’esperienza italiana non è isolata, poiché nello scenario mondiale esistono già dei precedenti nell’ambito del riutilizzo delle piattaforme offshore. In Malesia, ad esempio, una piattaforma è stata tramutata in un resort, dove è possibile soggiornare per dedicarsi alle immersioni. Nel Golfo del Messico, una delle aree a maggiore concentrazione di piattaforme a livello globale, più di 500 piattaforme delle 1800 esistenti sono state riconvertite in “reef” (una scogliera artificiale che permette lo sviluppo della fauna marina, altrimenti difficoltoso sui fondali del Golfo) e si progetta di destinarne altre alla produzione di energie rinnovabili.

Infatti, in questo scenario, e considerando il contesto storico che impone con urgenza di ricercare nuove fonti energetiche, lo sviluppo di tecnologie per l’estrazione di energia da fonti rinnovabili offshore assume un’importanza fondamentale. La possibilità di sfruttare il vasto spazio marino consentirebbe di evitare conflitti d’uso a terra, di creare sinergie con altre attività offshore e di ridurre gli impatti visivi ed ambientali rispetto alle installazioni sulla terraferma.

Tra le fonti di energia rinnovabile offshore, negli ultimi anni l’energia delle onde del mare ha attratto un crescente interesse da parte di aziende ed istituti di ricerca, acquisendo sempre più rilevanza grazie ai numerosi vantaggi che offrirebbe. Tra essi, la modesta visibilità dei dispositivi per la conversione di energia ondosa (denominati WECs, Wave Energy Converters) rispetto alle turbine eoliche; il ridotto impatto ambientale, nel caso dei dispositivi galleggianti, ancorati al fondale allo stesso modo di una nave, senza necessità di strutture fisse; la maggiore continuità di questa fonte energetica nel tempo, poiché le onde hanno una durata superiore rispetto al vento che le genera e non si ha alternanza tra giorno e notte come nel caso dell’energia solare.

A rallentare la commercializzazione di questi dispositivi sono alcune problematiche tecniche, come l’efficienza dei sistemi di conversione, la progettazione dei sistemi di ancoraggio e i costi di produzione, ma la combinazione con altre fonti di energia più consolidate e con altre attività offshore potrebbe realisticamente aumentare la fiducia degli investitori rispetto a tali tecnologie emergenti, contribuendo al loro sviluppo.

Il gruppo di ricerca di Idraulica Marittima dell’Università di Bologna ha depositato recentemente una domanda di brevetto per un WEC che si propone di superare alcuni degli ostacoli alla commercializzazione. Nell’ambito del progetto PLaCE, l’Università di Bologna si è inoltre occupata delle problematiche legate ai sistemi di ancoraggio e dello studio della combinazione ottimale tra energia ondosa ed altre energie rinnovabili al fine di provvedere al fabbisogno energetico della piattaforma in maniera continuativa.

Le piattaforme oil&gas riconvertite ad altri usi sostenibili potrebbero dunque autoalimentarsi mediante energie rinnovabili e l’esperienza maturata nell’abito di questi progetti potrebbe essere trasferita, ad esempio, al caso delle piccole isole o delle comunità costiere isolate, al fine di raggiungere l’indipendenza energetica, interrompendo l’impiego degli inquinanti generatori a combustibili fossili. Del resto, l’evoluzione della vita sulla terra e le più grandi conquiste dell’umanità sono sempre state legate all’acqua, al mare e agli oceani: e se proprio da qui giungessero le risposte ad uno dei maggiori problemi della nostra epoca e da qui cominciasse l’ormai indispensabile transizione verso un futuro più sostenibile?

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