Prima i fatti, poi le parole. Pure nella ricezione di un premio si dimostra la propria statura. La prof.ssa Santa Parrello, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, il 13 aprile scorso in Campidoglio, ha ricevuto il Premio ‘Minerva Anna Maria Mammoliti’ riservato a ‘Donne che rappresentano esemplari modelli femminili per le loro capacità professionali e per i valori positivi di cui sono portatrici’.
Alla docente, il riconoscimento è stato conferito per l’impegno sociale dimostrato dal 2010 ad oggi, al fianco dell’Associazione onlus Maestri di Strada, nella lotta contro la dispersione scolastica e la marginalità sociale nelle periferie. Catanzarese, dal 1983 a Napoli, Parrello, con il Premio, siede idealmente accanto a donne come Margherita Hack, Simone Veil, Nilde Iotti. Il lavoro silente e quotidiano al fianco di chi si reputa – purtroppo – uno scarto della società: questo il suo campo d’azione. “Il premio è un messaggio per i giovani: vale la pena fare questo lavoro”. Sul gender gap nelle Università, nessun mezzo termine: “c’è un sistema di potere maschilista che tiene le donne volutamente lontane”.
Quali sensazioni ha provato quando le è stato comunicato del Premio? “Sono stata innanzitutto sorpresa: davvero, non me l’aspettavo, soprattutto perché il lavoro che faccio non è sotto i riflettori. Dopo ho scoperto che la mia candidatura è stata selezionata perché di recente, assieme a ‘italiadecide’ (Associazione di ricerca per la qualità delle politiche pubbliche, ndr) ho partecipato alla costruzione di un dossier sull’educazione e dispersione scolastica che sarà presentato in autunno alle Camere, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Poi, dopo la sorpresa iniziale, ben oltre l’aspetto personale, ho pensato fosse un riconoscimento importante per la lotta contro la dispersione”.
Veniamo al lavoro che svolge sul territorio. Dati Censis registrano che il 23% dei giovani tra i 18 e i 24 anni sono del tutto emarginati: non lavorano, né studiano. Qual è la sua interpretazione? “I dati sulla dispersione sono impressionanti, anche perché quelli ufficiali sono sempre una sottostima rispetto al fenomeno reale, che è assai complesso. C’è una dispersione esplicita, cioè quella degli abbandoni veri e propri, e una implicita, che fa riferimento alle promozioni apparenti. La scuola promuove ragazzi che non hanno neanche le competenze base di lettura, scrittura e calcolo. Queste percentuali, che purtroppo riguardano tutti i Paesi occidentali, si concentrano e diventano più alte nei contesti marginali: uno scandalo delle democrazie; perché c’è una doppia marginalizzazione dei giovani”.
Com’è la situazione in Campania? “Il dato, in calo prima della pandemia, è di nuovo molto alto. Tutto ciò dimostra un fatto: la dispersione è un fenomeno strutturale che riguarda la scuola. Abbiamo costruito un sistema scolastico non in grado di affrontare problematiche che i ragazzi, loro malgrado, portano. Gli interventi sono emergenziali da decenni, piccole riforme che mettono solo toppe. La scuola ha bisogno di una riforma strutturale. Sono decenni, forse di più, che le scienze umane e sociali indicano strade che sarebbero percorribili, ma le politiche educative non riescono a recepirle”.
Sta dicendo che il sistema è ottuso? “A volte viene da pensare a una malafede del sistema. Quando gli organismi internazionali parlano di milioni di giovani che nel mondo non hanno competenze di base, viene da pensare che siano anche più facilmente manovrabili, data la minore capacità critica. Infatti, studi recenti sulla dispersione parlano di una forte crisi di sfiducia tra giovani, famiglie e istituzioni”.
Cosa può fare l’Università per contrastare il fenomeno? “Moltissimo. Per fortuna l’area Terza Missione è diventata importante. L’Università ha il compito di leggere la complessità della realtà, e con la Terza Missione si possono impiegare le competenze sul campo, in maniera diretta. Tanti docenti come me lavorano nel terzo settore e nelle scuole per accorciare la distanza tra teoria e pratica. C’è pure un’ulteriore dimensione: l’avvicinamento con la politica, intesa nel senso nobile. Il nodo vero è consentire a questa di usare le conoscenze di cui siamo portatori”.
Una storia di emarginazione
Ci racconta una storia di emarginazione che ha incontrato lungo il suo cammino, di quelle che le danno lo stimolo di continuare? “Ne avrei tantissime. Innanzitutto dico che, qualche giorno fa, raccontavo a miei studenti in aula – che coinvolgo moltissimo, spesso nel post lauream lavorano in questi contesti – che non è infrequente che gli adolescenti ai margini si considerino spazzatura. Spesso chiedono ai professionisti che coinvolgiamo nei progetti ‘chi te lo fa fare di lavorare con noi che siamo monnezza?’.
Quindi è ancora più importante testimoniare che un adulto sceglie, tra varie possibilità, di andare in questi contesti, perché significa provare a cambiare la società. Racconto una storia recentissima. Un ragazzino, Emanuele (nome di fantasia, ndr), ha vissuto un doppio trauma: ha perso il papà durante il Covid. A questo, dopo forse un anno, si è aggiunto altro. La madre, provata, ha chiesto, a suo tempo, al figlio maggiore di occuparsi del più piccolo, che aveva dato segni di difficoltà ovviamente. Purtroppo, il più grande, nel frattempo, è entrato in giri illegali, tentando forse di mettersi anche in proprio, cosa assai pericolosa nella criminalità.
Questo fratello si dedicava moltissimo ad Emanuele e gli diceva di non seguire il suo esempio. Poi la tragedia: il fratello maggiore muore ammazzato dalla camorra. A quel punto la scuola, che collabora con Maestri di Strada, decide di affrontare con noi la questione, per pensare come aiutarlo. Questa è la cosa importante: provare volta per volta, fare gruppi riflessivi di pensiero, mettendo su pratiche che evitino il ripetersi di vendette e circoli viziosi. L’unione di forze degli adulti ha consentito di trovare soluzioni affinché Emanuele non entrasse nel giogo della criminalità. E, per questo, Maestri di Strada usa molto i laboratori di teatro, arte, musica. Strumenti straordinari”.
Il Premio Minerva è dedicato a ‘Donne che rappresentano esemplari modelli femminili’. Eppure i dati mostrano che lo spazio per le donne all’interno delle Università, e nello specifico della Federico II, sembra ancora poco: al 2021, sono 746 i professori uomini di I fascia, rispetto a sole 195 donne. Qual è la sua percezione rispetto alla questione? “All’interno dei sistemi universitari il gap c’è ed è evidente. Perché c’è un sistema di potere al maschile che per me discrimina in due modi: uno è quello di dare meno chance alle donne, ma d’altra parte è proprio il modello di potere che le tiene volutamente lontano.
Come donna posso non condividere una certa qualità di gestione di potere, e per questo non essere interessata ad arrivare a quel ruolo, se gestito secondo un modello addirittura maschilista. Questo determina il gap, così come la mancanza di politiche a supporto della vita della donna. Per ricercatrici e docenti che vogliono prendersi cura dei figli, dei genitori anziani, non c’è supporto nell’Università in generale. Di contro, il pensiero e il modo di fare femminile sarebbero e saranno una grande occasione di crescita”.