È una “lettera d’amore per Napoli” il suo primo libro ‘Perduti nei Quartieri spagnoli’
“A L’Orientale ho conosciuto la passione per lo studio fine a sé stesso: Napoli, è stata un’università della vita. Se non avessi vissuto qui non sarei la stessa persona che sono oggi”. Heddi Goodrich, scrittrice statunitense nota al grande pubblico per ‘Perduti nei Quartieri spagnoli’ (2019, Giunti, tradotto in tredici lingue) e ‘L’americana’ (Giunti, 2021), il 3 marzo è tornata in quello che è stato il suo Ateneo da giovane – ha studiato bulgaro e russo – per raccontarsi agli studenti; senza veli. All’ombra del Vesuvio, l’autrice è convinta di aver compiuto il proprio destino, già scritto in una reminiscenza adolescenziale: “Ero ragazzina e in un sogno ho visto colonne greche ergersi dal mare. Tutto intorno, si stagliava una città”. Poi ha aggiunto: “Un vero mistero. Che solo dopo anni, vivendo a Castellammare e visitando Pozzuoli, avrei capito. Quello è stato un momento fulminante, come se l’anima avesse custodito il ricordo di una vita precedente”. Un’ora e mezza, tanto è durato l’incontro moderato dal professore Carlo Vecce, docente di Letteratura italiana contemporanea, che ha analizzato le due opere durante il proprio corso: 90 minuti in cui le parole dell’autrice, che ha risposto alle tantissime domande degli studenti, sono state eco di una magia ancestrale. Che ha sostanza viva nel percorso di scrittura di Goodrich, che ha sempre avuto “l’urgenza di scrivere, pur non avendo mai avuto l’ambizione di diventare una scrittrice”. Madrelingua, insegnante e traduttrice di inglese: ha scritto i suoi romanzi in italiano.
“Con l’italiano mi libero dalle paure”
Non una decisione, quanto una necessità: un’esigenza interna a tratti insondabile, come direbbe lei. A questo proposito, su domanda di una studentessa, svela il momento esatto in cui ha compreso questa sua verità. “È stata una lunga elaborazione. Il primo libro (‘Perduti nei Quartieri spagnoli’) l’ho scritto in inglese, ci ho messo dieci anni. Sarò arrivata a farne sette, otto stesure, e tutte facevano schifo(si avverte, in questa parola, una forte napoletana, figlia dell’intenso periodo vissuto qui, ndr), non capivo perché. Un giorno, ero già in Nuova Zelanda, andai da un’amica che si occupava di reiki (un massaggio energetico), sembrava una veggente. Mentre ero distesa sul suo lettino, ebbe una sorta di visione. Mi disse di aver visto il mio romanzo, ma di non riuscire a distinguerne i caratteri, perché era scritto in italiano. Vide pure l’editore che me l’avrebbe pubblicato: un uomo su una barca. Ne rimasi sconvolta”. Da lì, una full immersion che l’ha portata alla traduzione nella lingua di Dante, che ha svelato l’arcano. “Utilizzando l’italiano, comprendevo man mano tutti gli errori. Le frasi in più, i toni troppo formali e artefatti. Sono arrivata alla conclusione che in italiano non riesco a dire menzogne, ci ho trovato la mia vera voce. Io, che sono una persona molto ansiosa, con l’italiano mi libero dalle paure. Entro in trance e mi sento viva”. E non sembra affatto un caso, considerando l’intenzione intima del primo libro: “un’indagine sui luoghi di appartenenza, una lettera d’amore per Napoli, che sembra avere una sua personalità e che non è mai di passaggio”. “Volevo riviverla: i suoni, gli odori, i colori delle persone. Non a caso la protagonista fa una sorta di tour, non è mai nello stesso luogo della città”. L’italiano come lingua della verità. Una verità che ha incontrato e dato forma ad alcuni dei temi principali, oggetto delle appassionate domande degli studenti. Innanzitutto l’amore incondizionato, “l’unico davvero interessante – dice – lo si può dare tanto a un gatto, quanto ad una mamma o a un fidanzato. Ami e non vuoi nulla in cambio. In sostanza quello che io stessa faccio da scrittrice: ai lettori non ho nient’altro da dare che me stessa, quello che ho nella testa e nel cuore”. Evocativa anche una domanda di una studentessa sulla“malinconia esterna”che aleggia sempre su Napoli. “È vero, anche se non mi ritengo una persona nostalgica. Tuttavia qui ho sempre avvertito una sorta di precarietà della vita, una consapevolezza della fine dei rapporti. Il Vesuvio lo vedi e la sua presenza ti fa pensare alla morte. Napoli è un mistero che non vorrò mai conoscere, questa è la sua magia. Dà dei brividi di bellezza”.
Il baricentro della discussione si è poi spostato sulle tecniche del romanzo. Struttura forte, utilizzo della prima persona singolare, modelli di riferimento per l’autofiction. I ragazzi hanno chiesto ragione di queste scelte. “Per me è molto importante dare uno scheletro forte al romanzo. E ho scelto di usare l’io, perché mi costringe ad essere sincera. Il rapporto con la pagina cambia totalmente”. Goodrich, già al lavoro sul prossimo libro, anticipa un cambio di prospettiva. “Continuerò ad utilizzare la prima persona, ma mi rivolgerò ad un tu, per rendere il tutto ancora più intimo”. Per chiudere l’incontro e celebrare una discussione molto emozionante, il prof. Vecce ha letto un passo de ‘L’americana’. La protagonista si trova su una spiaggia della penisola sorrentina, dove “si avverte una tensione verso la libertà e la natura”.
Claudio Tranchino