Alessandra Scroccaro studia il challenge-based learning. Attualmente, è alla Texas State University per un periodo di ricerca
Alessandra, qual è il tuo progetto di ricerca e come hai ottenuto la borsa Fullbright?
«Il mio attuale progetto di ricerca riguarda lo studio del paradigma dell’università imprenditoriale, un’università cioè che promuove e supporta imprenditorialità e innovazione tra studenti, studentesse, staff accademico e non accademico. Lo fa attraverso l’attivazione di challenge (sfide proposte da imprese e enti del territorio, ndr), mentorship, formazione specifica sulla creazione di start-up e sul sostegno a processi di innovazione, con particolare cura dei rapporti con gli stakeholders.
Nel 2022 mi sono candidata per una borsa di ricerca Fulbright di 9 mesi presso la Texas State University (Usa) e dopo un iter abbastanza lungo comprensivo di redazione della proposta di ricerca e colloqui, sono riuscita a rientrare nel gruppo di persone che sono potute partire per l’anno 2022-2023».
Qual è la tua definizione di challenge-based learning e perché pensi sia importante nella formazione? Come può essere implementato efficacemente in un ambiente accademico?
«Il challenge-based learning (Cbl) è un ponte tra l’università e il territorio. È un’opportunità per studenti e studentesse per mettere in pratica le conoscenze acquisite a lezione, entrando in contatto con aziende e realtà del territorio, sviluppando un mindset proattivo – direi imprenditivo – utile per navigare nel mercato del lavoro presente e futuro. Si tratta di un cambiamento radicale nella didattica, che assegna ai docenti il ruolo di facilitatori del cambiamento. Gli stakeholders partecipano a questo processo raccogliendo le proposte più interessanti e facendo talent scouting tra studenti e studentesse. Se gestito correttamente, è un approccio vincente e sostenibile per tutti gli attori in gioco.
Il challenge-based learning può essere implementato efficacemente dall’università se guidato e supportato».
Hai riscontrato differenze significative tra il modo in cui si fa ricerca negli Stati Uniti e in Italia?
«Certo, stiamo infatti parlando di due sistemi universitari molto differenti, sotto diversi aspetti. Il budget a disposizione per le università pubbliche e soprattutto per la ricerca negli Stati Uniti è più elevato. Avere un ampio budget permette di avere strutture solide, spazi funzionanti, con più personale a disposizione.
Dal punto di vista, invece, della qualità della ricerca e della qualità metodologica, non abbiamo nulla da invidiare. Direi quasi che abbiamo una marcia in più. Abbiamo elevatissime basi teoriche e metodologiche e riusciamo a fare buona ricerca con budget inferiori».
Cosa ti aspetti di fare una volta concluso il tuo periodo di ricerca in Texas e come pensi che questa esperienza influenzerà il tuo futuro accademico?
«Una volta rientrata dal Texas, mi piacerebbe condividere quanto appreso in questo periodo all’estero e contribuire affinché l’Università di Trento possa migliorare le strategie di supporto allo staff accademico e non accademico che sviluppa e promuove innovazione.
Soprattutto nei settori chiave legati alla qualità dello stile di vita, alla salute e al benessere. Inoltre mi piacerebbe portare qualche best practice anche nella didattica innovativa, opportunamente aggiustata e proporla a studenti e studentesse che vogliano mettersi in gioco».