La mappa dei 19 punti in città dove si aprirono bocche eruttive
La prossima volta che vi capiterà di affrettarvi verso la stazione della funicolare o di passeggiare lungo le rampe intitolate a Lamont Young o a Capodimonte o San Martino, osservando il suolo e dopo aver letto le parole del prof. Claudio Scarpati, docente di Geochimica e Vulcanologia alla Federico II, magari vi salirà un pizzico d’inquietudine. Immotivata ed irrazionale, ma inevitabile se penserete che lì, dove state camminando, migliaia di anni fa si era aperta una delle molte bocche dei Campi Flegrei che emetteva pomici, tufo, cenere.
“I napoletani – dice il docente – ignorano di passeggiare sui vulcani”. Lo ha verificato tre settimane fa, quando ha incontrato alcune persone nell’ambito dell’evento dedicato ai vulcani partenopei nell’ambito della rassegna promossa dalla Federico II in concomitanza con il transito in Campania del Giro d’Italia. Ha letto stupore e meraviglia negli sguardi di coloro i quali osservavano la mappa dei vulcani – 19 – del territorio partenopeo. “Tutti conoscono – riflette il docente – il Monte Somma-Vesuvio e, almeno per sommi capi, la sua storia. Tutti o quasi sono a conoscenza che ci sono i Campi Flegrei, che esistono fenomeni come il bradisismo. Quasi tutti i non esperti, però, tendono a collocare i Campi Flegrei esclusivamente nell’area puteolana, a Bacoli, al più ad Agnano. Non è così”.
Spiega: “A Napoli in molti quartieri ci sono una serie di vulcani che hanno dato forma alla struttura della città. Napoli fa parte vulcanologicamente dei Campi Flegrei, una caldera che si è attivata di volta in volta con bocche eruttive differenti. Alcune in zone come l’attuale Corso Vittorio Emanuele, i Camaldoli, Capodimonte, il Chiatamone – alle spalle degli alberghi che affacciano oggi sul lungomare – Nisida”.
Avverte: “Oggi solo l’occhio esperto del geologo rintraccia quelle vicende e le relative testimonianze geologiche, perché quel che resta delle antiche eruzioni generate da bocche che si aprirono proprio in quei punti sono soffocate dalla urbanizzazione intensa. Al Vomero, per esempio, abbiamo trovato cupole laviche sepolte sotto i tufi studiando i percorsi delle linee metropolitane. Abbiamo individuato pezzi di vulcano, per così dire, dentro le cantine, sotto i giardini, nei tunnel. È un lavoro che stiamo portando avanti da decenni, io ho cominciato negli anni, ahimè non più tanto vicini, nei quali ho intrapreso il dottorato. Negli anni Ottanta, per intenderci”.
Queste testimonianze vulcaniche, puntualizza il prof. Scarpati, non vanno confuse con altre, che pure informano il paesaggio. Spiega: “Quando si fa riferimento ai vulcani della città di Napoli di accumuli vulcanici originati da bocche che si erano aperte proprio sotto certe zone della città in epoche più o meno remote. L’episodio geologicamente più recente che abbiamo ricostruito è quello di Nisida, di 3900 anni fa. A noi pare una eternità, ma in una ottica di ere geologiche è un soffio.
Cosa diversa sono i materiali vulcanici depositati a Napoli e nel resto della Campania dal vento e dalla forza delle esplosioni in conseguenza di fenomeni avvenuti altrove. Troviamo a centinaia di chilometri di distanza il tufo originato dalla celebre eruzione pliniana del Vesuvio del 79 dopo Cristo e quello della grande eruzione dei Campi Flegrei di 30 mila anni fa. A Sorrento, nella falesia, individuiamo decine e decine di metri di tufo che provengono dai Campi Flegrei e qualche metro di tufo prodotto dal Vesuvio”.
Fu un evento di portata ciclopica, quello di 30mila anni fa, il più imponente che sia mai avvenuto nel Mediterraneo, a confronto del quale la potenza della eruzione del 79 dopo Cristo del Vesuvio fu ben poca cosa. “Per dare un’idea – chiarisce il prof. Scarpati – se stimiamo ad uno l’intensità della eruzione vesuviana che distrusse Pompei, la potenza di quella dei Campi Flegrei fu pari a 100. Ci fu poi un’altra grande eruzione nei Campi Flegrei 15.000 anni fa”.
Gli studiosi hanno dunque individuato 19 punti nella città di Napoli dove si aprirono bocche eruttive dislocati in vari quartieri. Inevitabile a questo punto chiedersi se c’è il rischio che un giorno possa ripetersi una eruzione ad un passo da Castel Sant’Elmo o nella zona del bosco di Capodimonte. “È decisamente improbabile perché adesso il vulcanismo dei Campi Flegrei tende a concentrarsi nella parte centrale, ma potenzialmente anche l’area napoletana potrebbe essere soggetta ad eventi vulcanici. Fa parte dell’area attiva”.
Tutte le bocche dei Campi Flegrei, se considerate singolarmente, “sono spente perché producono eruzioni monogeniche. Da quella fessura si è prodotta una eruzione e la successiva avverrà in un altro luogo, ma tutta l’area è attiva”. Torniamo ai diciannove edifici vulcanici mappati dai ricercatori in città: “Sono punti dai quali sono venute fuori eruzioni esplosive ed in un caso è fuoriuscita una colata lavica. Per alcuni di essi siamo riusciti anche ad ipotizzare una datazione. Ce ne sono di 80, 50, 20 mia anni fa. Quello al Chiatamone aveva il suo centro eruttivo, in parte cancellato dall’azione del mare, alle spalle di Castel dell’Ovo e certamente risale a non più di 15mila anni fa. Quello di Nisida parrebbe l’episodio più recente. Per datare bisogna trovare cristalli radiogenici. In alcuni casi si trovano, in altri è più difficile”.
È più pericoloso il Vesuvio o lo sono i Campi Flegrei?
Al di là dell’approfondimento e della curiosità scientifica, divulgare il racconto delle vicende geologiche e far capire a tutti quali caratteristiche abbia il territorio è importante perché bisogna essere sempre consapevoli di dove si vive e delle problematiche sismiche o vulcaniche. “Se si va sul sito ufficiale di Auckland, la capitale della Nuova Zelanda, un’area vulcanica attiva diffusa, c’è scritto: ci troviamo in un sito vulcanico attivo. Da noi non è tanto evidenziato, ma sarebbe giusto rendere tutti consapevoli. Nell’area vesuviana forse è più facile perché il Vesuvio si vede, è percepibile. Nelle zone della caldera dei Campi Flegrei il vulcano non si vede, non si riconosce e non sempre si ha la percezione della natura vulcanica del sito”.
È più pericoloso il Vesuvio o destano maggiori timori i Campi Flegrei? “Va fatta una valutazione di quello che succede adesso. Entrambi sono attivi, ma ora il Vesuvio non manifesta particolare agitazione. Ovviamente si verificano piccoli terremoti, ci sono fumarole e degassamenti, ma niente che vada oltre certi parametri. I Campi Flegrei sono in questo momento molto più attivi ed hanno avuto varie crisi negli anni Settanta ed Ottanta del secolo passato e ne hanno ora. Da questo punto di vista destano più preoccupazione del Vesuvio, anche perché possono dare un intervallo di eruzioni da piccolissime a molto più grandi di quelle del Vesuvio”.
Di positivo, va avanti, c’è che “tutti gli eventi naturali più sono grandi e intensi, più sono rari. Vale per i terremoti e per le eruzioni. Nei Campi Flegrei ci sono state oltre cento eruzioni piccole nella storia, ma due molto grandi. I fenomeni più carichi di energia hanno tempi di ritorno molto ampi”.
Ci sarà modo di evacuare la popolazione in maniera tempestiva e con il necessario preavviso se Vesuvio o Campi Flegrei dovessero eruttare? “All’Università – risponde il docente – mi occupo dello studio dei vulcani. Il monitoraggio è compito dell’Osservatorio Vesuviano. L’importante è lavorare su due fronti. Uno è la conoscenza. Quanto più è approfondita, più elementi abbiamo per ipotizzare quale possa essere il comportamento futuro di un vulcano. Poi c’è l’aspetto del monitoraggio continuo dello stato del vulcano, necessario ad intercettare le variazioni e per capire se, in caso di anomalie, le accelerazioni siano tali da prevedere che si vada verso una eruzione in tempi brevi. Vesuvio e Campi Flegrei oggi sono attentamente studiati e monitorati. C’è, però, un terzo aspetto fondamentale in una strategia di prevenzione che deve funzionare: la preparazione della popolazione”.
Chiarisce: “Esiste un piano fatto di tanti punti e che può arrivare fino all’evacuazione. Andiamo nelle scuole, parliamo con i giornalisti ma occorre un’azione più capillare affinché le famiglie sappiano esattamente come comportarsi in caso di evacuazione”. Racconta: “Tempo fa nelle aree vesuviane realizzammo una specie di inchiesta tra gli studenti per capire cosa sapessero di questa faccenda. Le risposte furono molto vaghe. È un aspetto sul quale dobbiamo migliorarci. Le linee guida esistono e gli operatori le conoscono, ma si tratta di estendere questa conoscenza alle persone perché, se un giorno scatterà il piano di evacuazione, sarà fondamentale che tutti siano pronti per evitare errori”.