Con la ricercatrice del Cnr Marta Chiarle, che ha studiato a fondo la tragedia del luglio 2022, analizziamo la dinamica di un evento paradigmatico del cambiamento climatico, guardando alle sfide della ricerca glaciologica in Italia
Erano le 13.45 di una calda domenica di inizio estate, il 3 luglio 2022, quando undici alpinisti furono travolti e uccisi da una valanga provocata dal distacco di un seracco sul ghiacciaio della Marmolada, al confine tra Veneto e Trentino-Alto Adige. Sono passati tre anni da quella tragedia, un evento paradigmatico degli effetti del cambiamento climatico. In questo Anno Internazionale della Conservazione dei Ghiacciai, analizziamo, insieme a Marta Chiarle – ricercatrice del CNR IRPI e membro del Comitato Glaciologico Italiano, che ha studiato a fondo l’evento – la dinamica dell’accaduto, il contesto e le nuove sfide della ricerca glaciologica.
Quali sono stati i fattori determinanti che hanno portato al distacco di un placca di ghiaccio sulla Marmolada nel 2022?
Ci sono, da un lato, fattori preparatori, che agiscono su tempi lunghi e che hanno creato le condizioni del distacco. Il ghiacciaio della Marmolada si è ritirato e assottigliato col tempo, a causa del riscaldamento globale, e l’emersione delle rocce ha frammentato in diverse porzioni la sua superficie. Quella crollata è, infatti, una di queste. Se il fattore di più lungo periodo può essere considerato il proiettile, l’innesco – ovvero la causa effettiva del cedimento – è stato l’accumulo all’interno del ghiacciaio di una grande quantità di acqua di fusione da neve e ghiaccio. A inizio luglio 2022 si è registrato un picco di temperature. L’acqua di fusione si è infiltrata in una grossa frattura del ghiacciaio e non riusciva a defluire. È importante sottolineare che, se il ghiacciaio fosse stato ancora unito, l’acqua avrebbe potuto percorrere il ghiaccio e uscire alla fronte, come succedeva regolarmente. Invece, la frammentazione ha isolato alcune porzioni, creando delle placche secondarie, più piccole e sottili in un incavo delle rocce, dove per la presenza dei bordi ancora sigillati dal gelo l’acqua è rimasta intrappolata, concentrandosi nel crepaccio. Accumulandosi, l’acqua ha aumentato la pressione all’interno della massa glaciale, fino a far saltare il “tappo” e provocare il distacco del pezzo di ghiaccio in questione.
Come avete iniziato a studiare la dinamica?
A causa delle vittime, l’area è stata interdetta a chiunque, e chi come me fa ricerca si è basato inizialmente sulle immagini dei soccorritori e su quelle satellitari, rintracciando presto delle similitudini con il crollo ghiacciaio di Coolidge sul Monviso avvenuto il 6 luglio 1989. Altra epoca, ma con analogie. La frattura è identica, parliamo di due placche di ghiaccio alla stessa quota ed esposizione. Ci fu anche allora un rialzo termico, seppur non così intenso come quello del 2022, e un forte temporale; alla Marmolada era in circolo più acqua di fusione.
Quali strumenti di monitoraggio sono oggi disponibili per prevenire o almeno segnalare in tempo reale i rischi di crolli glaciali?
In realtà siamo a un passo precedente, salvo i casi di Planpincieux e Grandes Jorasses, due ghiacciai pensili in Val Ferret, nel comune di Courmayeur (Aosta), monitorati da anni 24 ore su 24, manca per il resto delle Alpi un’analisi sistematica dell’eventuale pericolosità dei ghiacciai, anche perché si trovano in zone remote, lontane da centri abitati e senza strade (cosa che porterebbe far considerare il monitoraggio del rischio non prioritario). Dopo uno screening si potrà invece capire su quali intervenire e installare un monitoraggio. Si usano sistemi cosiddetti ridondanti, ovvero più sistemi di controllo per evitare falsi allarmi: georadar, misuratori sismici e altro. Alcuni ghiacciai considerati pericolosi non lo sono più e viceversa altri sono diventati instabili. Il Dipartimento della Protezione Civile ha istituito un tavolo tecnico nazionale allo scopo di individuare una strategia comune per identificare e gestire i rischi legati ai ghiacciai. Come ricercatori il nostro contributo è quello di indicare i fattori di pericolosità e proporre soluzioni per il monitoraggio dei ghiacciai. Alle Regioni compete invece uno screening complessivo e la gestione di eventuali rischi.
In che misura il riscaldamento globale sta accelerando la scomparsa dei ghiacciai italiani, e in particolare della Marmolada?
Il Comitato Glaciologico Italiano misura i ghiacciai da oltre 100 anni fa, la sua attività ha un valore unico a livello internazionale: non esiste altro Paese che abbia una raccolta di dati così sistematica, a lungo termine e su così tanti ghiacciai. Dai dati si evidenzia come la fase di ritiro dei ghiacciai sia iniziata tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Un ritiro che non è, però, omogeneo: sta, infatti, subendo un’accelerazione, ogni decade è sempre più veloce. Se negli anni Novanta un ritiro della superficie e un assottigliamento dello spessore erano a occhio nudo più difficili da decifrare, in questi ultimissimi anni si riconoscono a occhio differenze importanti da un anno all’altro. Questo dà bene il senso dell’accelerazione del fenomeno.
Ci sono similitudini tra la Marmolada e il recente collasso del Ghiacciaio del Birch in Svizzera?
Una similitudine c’è, secondo me, nel fatto che sono eventi a inizio stagione di fusione, quando i margini sono ancora freddi e non ci sono i canali che l’acqua di fusione usa per attraversare il ghiacciaio. È stato il 28 maggio scorso per il Birch, il 3 luglio 2022 per la Marmolada, che però si trova a una quota più alta. C’è stato un contributo dell’acqua di fusione, ma nel caso del Birch la pressione alla massa glaciale è arrivata dalla superficie con l’accumulo di detriti a causa di frane sovrastanti. Questi hanno esercitato il proprio peso sul ghiacciaio, che aveva molta acqua sotto. Il Birch, che a differenza di quello sulla Marmolada situato in una depressione di roccia è un ghiacciaio pensile, dava da diversi anni segnali di instabilità ed era sotto monitoraggio. Per quello, sono stati evacuati tempestivamente gli abitanti della zona. Sulla Marmolada non c’erano stati movimenti tali che facessero ipotizzare il collasso dell’intera placca di ghiaccio.
Quali sono oggi le principali sfide della ricerca glaciologica in Italia?
Una delle più grandi sfide è riuscire ad avere un inventario preciso e aggiornato dei ghiacciai italiani. Il primo catasto risale al 1927, poi ne è stato fatto uno tra il 1957 e il 1958, un altro a metà anni Ottanta e uno ulteriore, per tutto l’arco alpino italiano, tra il 2005-2010. Una volta tra un inventario e l’altro erano sufficienti 20-30 anni di distanza. Ora, nell’attuale contesto di cambiamento climatico 15 anni sono tanti. La prima sfida è avere un catasto dei ghiacciai aggiornato ogni 5 anni, sapere dove sono e come stanno i nostri ghiacciai. Uno strumento utile sia per prevenire i rischi sia per scopi di ricerca. Individuare così le tipologie di ghiacciai instabili e incrociare, poi, il tutto con una frequentazione antropica. Per i casi che meritano un’indagine approfondita gli strumenti di monitoraggio ci sono: un primo livello di attenzione, come per le frane, con monitoraggi una o due volte l’anno; un secondo per situazioni di rischio tale da richiedere un monitoraggio costante. Non avrebbe senso installare monitoraggi 24 ore su 24 sugli oltre 900 nostri ghiacciai, non sarebbe ragionevole. Inoltre, dal tavolo con la Protezione Civile è emersa la necessità – visto che si tratta di ambienti per lo più non abitati e privi di strade ma in alcuni casi con frequentazione turistica elevata – di lavorare su un discorso di informazione e comunicazione corrette per evitare falsi allarmi o sottovalutazioni.